La poetica degli oggetti e l’arte del “potevo farlo anche io”, dalla Fontana di Duchamp alla Banana di Cattelan. Ma è arte questa? Aspettate a rispondere perché la questione non è così facile.
Alle origini, il dilettantismo
C’era una volta l’Arte di Giotto, di Cimabue, di Donatello, di Raffaello, di Michelangelo, di Caravaggio, di Canova e via dicendo, che piace tanto a tutti e guai a dire il contrario.
La “rottura” con l’Arte più universalmente accettata, si può dire che inizia con due importanti invenzioni a seguito delle rivoluzioni industriali.


La prima grande invenzione è stata la fotografia e il primo click è da attribuirsi a Joseph Nicéphore Niépce nel 1827. L’invenzione era semplice: c’era bisogno di una camera oscura opportunamente modificata e di una lamina di peltro trattata chimicamente che si ossidava solo con l’esposizione della luce del sole. Per questo lui le chiamava eliografie e per realizzarle ci volevano anche otto ore di tempo.
La seconda fondamentale invenzione fu il tubetto di colore registrato come brevetto da John Goffe Rand l’11 settembre del 1841 (vedi il brevetto). La fotografia libera gli artisti dalla necessità di dover rappresentare la realtà; il tubetto di colore libera dalla necessità di dover frequentare una scuola, un’accademia, un percorso che prima era obbligatorio per imparare a fare i colori.
In pratica nella seconda metà dell’ottocento ogni artista (o sedicente tale) poteva fare quel che voleva e chiunque poteva fare arte solo per piacere, per “diletto”. Su questa onda le industrie non si fermano e trovano nel mercato di fine ottocento una fetta di appassionati di pittura che tra un atelier e un bistrot, tra un tabarin e una maison des dames, iniziarono a produrre un’arte destinata non più alle grandi committenze ma a una borghesia medio-alta che sta emergendo grazie a una ricchezza sociale più diffusa, conseguenza anche del progresso industriale.
Le dimensioni delle tele divennero più piccole per adattarsi alle case cittadine, e i temi si adattano al costo al gusto dei borghesi.
È il tempo degli impressionisti, e già il loro modo di dipingere fa storcere un po’ il naso a quelle tele che sono solo l’impressione di un quadro.
“Impressione, sole nascente”. “Impressione, ne ero sicuro. Ci dev’essere dell’impressione, là dentro. E che libertà, che disinvoltura nell’esecuzione! La carta da parati allo stato embrionale è ancor più curata di questo dipinto”.
Così scriveva Louis Leroy nell’articolo “L’esposizione impressionista” in Le Chiarivari il 25 aprile 1874. C’è da chiedersi che cosa avrebbe detto se avesse visto quel che sarebbe accaduto dopo.
Qualcosa di simile è accaduto agli espressionisti francesi, i Fauves, con la dura critica di Louis Vacelloux che li aveva definiti malamente come belve. Questo Vacelloux non sbaglio solo questa ma si dimostrò altrettanto cieco alla novità a perché fu sempre lui, in un altra stroncatura, a definire Picasso, Braque e la loro compagnia come “Cubisti”. Con buona pace degli artisti, la visione dei critici è passata in secondo piano e da loro è andata la storia, e a chi scriveva, un momento di macchietta.
Parliamo di cose strane…
Se gli impressionisti potevano passare inosservati alla critica contemporanea, chi apre la stagione delle cose strane nell’arte è il movimento Dada, fondato a Zurigo nel 1917, in mezzo (sia per quando è sia per dove) alla Prima Guerra Mondiale.
All’inizio del novecento si dichiarano tre movimenti – di rottura – che saranno le colonne portanti dell’arte contemporanea:
- il Cubismo (1907) rompe il legame tra soggetto e il suo osservatore impostando nell’opera d’arte infinti punti di vista.
- l’Astrattismo (1912) elimina il soggetto rendendo protagonista dell’opera d’arte forme e colori.
- il Dada annulla l’opera d’arte e addirittura il ruolo dell’artista in quanto artefice.



L’artista di punta del Dada è stato Marcel Duchamp, probabilmente uno dei più fantasiosi alchimisti del Novecento. Infatti, con l’azione Dada trasformava il piombo in oro; un oggetto comune trovato già pronto, un ready–made, in un’opera d’arte che molto spesso ancora oggi fa parlare di se.
Così prende un Orinatoio (ready-made), lo porta in un museo (decontestualizzazione) e lo rinomina “Fontana” (ribaltamento del significato).




Quella di Duchamp era una critica spietata alla condizione dell’uomo in guerra; e come l’umanità in guerra si annulla, allo stesso modo l’artista annulla la sua identità e la sua capacità di fare. Una sorta di suicidio intellettuale che col tempo si rivelerà essere più prolifico di ogni previsione.
La poetica degli oggetti
Il novecento è segnato dalla lenta e progressiva crescita di opere d’arte che hanno oggetti come soggetto. Forse proprio per questa lenta progressione in pochi si sono accorti materialmente che i tempi stavano cambiando. L’oggetto, se lo si affronta come tema, trova la soluzione in modo molto facile quando lo si considera il simulacro dell’uomo, un correlativo oggettivo di molti valori. Piano piano molti artisti, anche di stampo più accademico, spostano l’attenzione verso soggetti più “popolari” pur mantenendo i valori di una tradizione tecnica pittorica più radicata nelle scuole che nei bistrot.




Il compromesso tra arte e oggetto sembrava raggiunto e a dispetto di quello slancio portato avanti dal Dada, subisce un importante freno anche perché la Grande Guerra fu assorbita dai governi totalitari che si installarono subito dopo e che avevano rilanciato il ritorno alla classicità. Nonostante molti non accettarono le imposizioni fasciste, naziste, franchiste, ecc., gli oggetti erano utilizzati per destabilizzare lo status-quo, l’ordine costituito delle cose e riuscivano a convivere, senza destare troppi scandali, accanto a l’arte più apologetica.
Purtroppo la ritrovata calma venne sconvolta da una Seconda – e rovinosa – Guerra Mondiale e quello che si era costruito, irrimediabilmente rovinò.
Tutta un’altra materia
Le rivoluzioni industriali avevano contribuito all’emancipazione degli artisti dalle accademie ma lo strascico di quelle rivoluzioni aumentò la capacità bellica delle grandi nazioni fino al drammatico epilogo. Una guerra che iniziò con la deportazione e l’assassinio di milioni di persone e si concluse con lo sgancio efferato di due bombe atomiche. Nei lager si applicava un sistema di sterminio di massa al pari di una catena di montaggio; la fusione nucleare, in quel caso fu l’innovazione tecnologica mai peggio utilizzata. Nonostante questo, forse anche per superare il male subito, molti artisti si misero a utilizzare materiali e tecniche provenienti dall’industria.
La ricostruzione fu portata avanti sulle due coste dell’oceano Atlantico. In ogni caso si sviluppò un pensiero profondo propio andando a cercare la materia nella sua profonda essenza.
In Europa si formarono movimenti di Informali nelle cui schiere stavano artisti che la guerra l’avevano subita, come Burri, che era medico, e Fautrier che visse il campo di prigionia da partigiano.
Per questi artisti la materia diventa qualcosa da tormentare, quasi a rievocare le ferite dell’uomo.




Fautrier arriva a stendere la sua pittura sul cemento. Burri utilizza plastiche sciolte, sacchi cuciti, legni combusti e materiali vinilici essiccati (cretti).
Oltre oceano la situazione è più felice, infatti emergono artisti come Jackson Pollock e Mark Rothko che iniziano a proporre un “Espressionismo Astratto” cioè una pittura dove il colore raggiunge la massima libertà di espressione ma il soggetto non c’è più.


Nascono rispettivamente: l’Action Painting (di Pollock) dove il quadro diventa il residuo della gestualità dell’artista; il Color Field (di Rothko) dove l’artista medita sulle sovrapposizioni di colore. Il colore utilizzato in entrambi i casi non esce dal tubetto ma dalle latte di colore industriale: gli smalti e le tinte lavabili.
La prima generazione di artisti che hanno lavorato dopo la Seconda Guerra mondiale ha staccato completamente la spina dal vecchio, motivati dall’esigenza di un’arte che fosse non solo contemporanea ma anche attuale, quindi veloce, per adattarsi alla mutazioni repentine degli eventi che hanno caratterizzato il novecento.
Coltelli e forchette
La ricerca così volge verso uno vero e proprio zero assoluto. È normale che l’artista cerchi una “sintesi”, una semplificazione, solo che non esiste più un freno inibitorio e la ricerca diventa eccentrica, la riduzione dell’arte arriva a forme primarie, a colori primari. Chi cavalca quest’onda sono Lucio Fontana, Giuseppe Capogrossi, ma sono solo i primi.
Fontana, che è in prevalenza uno scultore, riesce a ridurre la rappresentazione dello spazio utilizzando un semplice gesto che taglia la tela e che le permette di flettersi, di imbarcarsi, diventando il concetto dello spazio.


Capogrossi trasforma la sintesi stilistica in segno, considerando Il semplice fatto che l’artista si riconosce dal suo stile proprio per il linguaggio segnico che lascia su una composizione pittorica. Pertanto inventa un segno caratteristico, delle “forchette” che diventano matrice stilistica della sua pittura.


Quindi non c’è da stupirsi che a un certo punto, vedendo la sintesi estrema a cui erano arrivati molti artisti, qualcuno si accorse che l’arte aveva concluso il suo corso vitale: Giulio Carlo Argan, alla fine degli anni sessanta, constatò che l’arte era morta.
Scatole e scatolette
La seconda generazione di artisti, dopo il dopoguerra, iniziarono a muoversi in modo completamente diverso. In America il là fu dato dalla Pop-Art. L’arte di Andy Warhol, era rappresentativa di una società dei consumi, ma dietro, a dispetto del ready-made Dada, c’è un importante artigianato. Ogni opera Pop è fatta a mano, dalle serigrafie di Warhol, ai fumetti di Lichtenstein, alle toilette di Oldenburg.




Ma non finisce qui, sulla scena italiana inizia una vera ripresa delle novità americane. Il testimone lo raccoglie Piero Manzoni, l’enfant terrible della Milano da bere, il vicino di ombrellone di Lucio Fontana (quello dei tagli), forse un bimbominchia ma che sapeva incredibilmente il fatto suo e si divertiva a prendere in giro una società legata ciecamente al mercato dell’arte realizzando delle opere letteralmente non acquistabili.





L’effetto farfalla
Gli anni 50 e 60 non furono solo l’esaltazione dell’oggetto di consumo “sullo scaffale” ma anche degli scarti, dei residui di lavorazione e delle materie prime. Ormai si erano rotti gli argini e l’arte era diventata la corsa all’oro di chiunque avesse avuto un’ottima idea, anche se folle
Nascono movimenti come il New Dada statunitense e il Nouveau Réalisme francese. Un momento di ricerca dove le “stranezze” sono all’ordine del giorno: la bandiera di Jasper Johns (Flag) dipinta su un lenzuolo; il Letto di Robert Rauschenberg che ha come supporto un letto; il décollage Marilyn Monroe di Mimmo Rotella; le chiassose composizioni come L’Avant-Garde di Jean Tinguely.




Gli scarti di lavorazione non sono solo all’ordine del giorno ma si arriva anche all’utilizzo di materiali nuovi in esperienze che vanno via via da una sintesi concettuale e minimale fino al tratto dell’arte povera.






L’importante è partecipare
Purtroppo il sentimento che ci lasciano certa attività di arte contemporanea ci destabilizza dall’ordine dell’arte che siamo abituati a vedere sui libri di scuola e in fondo la nostra incomprensione nasce anche dal fatto che in tempi di formazione abbiamo dedicato, se ci ha detto bene solo un decimo del tempo all’arte dei giorni nostri, argomento che si consuma di corsa nell’ultima parte del quinto anno. Perciò se nove quadri su dieci sono fatti “a regola darte”, l’ultimo ci appare erroneamente fuori luogo.
La critica più spietata degli studenti, della persona comune è “la potevo fare anche io”, il che però, nella stessa critica, ci scordiamo di leggere la grande possibilità che l’arte contemporanea ci offre, cioè proprio la possibilità di essere artisti, solo che per inerzia, per noia, per timidezza, molto spesso non ci si muove e allora ci fermiamo a guardare e a criticare chi ha deciso di intraprendere una strada eccentrica, alternativa. In cuor nostro però, sono sicuro, nasce il rimorso di non averlo potuto fare anche noi. Tuttavia, la prossima galleria è dedicata all’arte del “posso farlo anche io”. Ok, vi sfido a farla anche voi, a inviare la vostra immagine all’email quellodiarte@gmail.com o sui vari canali social. Potrebbe diventare l’inizio di una nuova forma d’arte di cui voi potreste esserne i protagonisti.








Ma è arte questa?
La poetica degli oggetti, del prodotto industriale, nuovo, usato, riusato, sembra essere il grande business dell’arte del novecento e a molti dà fastidio solo perché esiste. Ma in fondo come diceva Joseph Beuys “l’arte non è lì per essere capita”, anzi l’artista è colui che getta un sasso. Il sasso può cadere sulla pietra facendo un rumore sordo, può cadere sulla sabbia e segnare un cratere, può cadere in acqua e dare vita alle onde che la fanno riverberare. L’arte è così, l’artista ci deve provocare e farci stare male. Michelangelo quando scopre il giudizio non viene accettato, appena morto il papa chiama Daniele da Volterra a coprire i nudi osceni; Caravaggio viene stroncato nella sua prima opera romana quando dipinge la prima versione di San Matteo e l’angelo; i Macchiaioli e gli Impressionisti portano i nomi che gli ha assegnato una critica che li ha giudicati incapaci, i Fauves e i Cubisti sono stati detti così con denigrazione e ancora si parla di loro.








Allora adesso, questa famosa Banana come si inserisce in questa nostra Storia dell’Arte? Se volete ditemelo voi. Purtroppo non possiamo dircelo adesso con esattezza, è solo questione e tutto poi si chiarirà. La Fontana di Marcel Duchamp ha segnato un’epoca, restiamo a vedere cosa succederà, per esempio, a Comedian di Maurizio Cattelan.