Esiste una chiave di lettura per definire una costruzione architettura? La risposta a questa domanda l’ha già data l’architetto romano Marco Vitruvio Pollione quando ha scritto e dedicato ad Augusto il trattato più antico e più imitato della Storia dell’Arte, il De Architectura.
Per capire che cos’è l’architettura dobbiamo tornare tra il 29 e il 23 a.C. quando Marco Vitruvio Pollione ha scritto il de Architectura, un trattato che riassume tutte le conoscenze nel campo dell’arte del costruire a cui si era giunti fino a quel momento. L’opera, una volta completata fu dedicata all’imperatore Augusto che il 16 gennaio del 27 a.C. era diventato imperatore di Roma mettendo in atto, tra le tante cose, anche una politica di rinnovamento della città. Come ricorda il biografo Svetonio nelle Vite dei Cesari (Aug., XXVIII, 3):
“egli l’abbellì a tal punto che giustamente si vantò di lasciare di marmo una città che aveva ricevuto di mattoni.”
Il trattato di Vitruvio oltre a raccontare l’architettura dei suoi tempi è stato fondamentale per conservare il linguaggio artistico, oggi patrimonio comune. Senza Vitruvio non useremmo parole come come dorico, ionico o corinzio; non avremmo ben chiari concetti come simmetria, euritmia e proporzione; ci mancherebbe il gusto estetico che nei secoli si è lentamente costituito, grazie all’osservazione dei resti di antiche città che possono essere state ricostruite idealmente solo con la lettura dei dieci libri del de Architectura.
La sintesi di Vitruvio sull’architettura trova il suo cardine nel terzo capitolo del primo libro (I,III,2) nel quale identifica le tre caratteristiche fondamentali dell’arte del costruire: la firmitas, la utilitas e la venustas. Stabilità, Utilità e Bellezza.
In ogni costruzione si deve tener conto della stabilità, della utilità, e della bellezza. La solidità si ottiene quando i fondamenti poggiano sul sodo, e si usano materiali di buona qualità e senza esserne avari; l’utilità è la capacità di un edificio di rispondere a uno scopo organizzando lo spazio interno; la bellezza è l’aspetto esteriore dell’opera che si ottiene con l’armoniosa proporzione delle parti e il calcolo delle simmetrie.
Questa di Vitruvio è una definizione che va oltre il tempo e gli stili, può essere utilizzata in ogni momento per definire cosa è e cosa non è un’architettura. Tra un po’ lo faremo, ma prima di tutto cerchiamo di capire che valore hanno queste tre semplici parole.
Prima di tutto c’è la firmitas, la stabilità. Un edificio deve essere stabile ovvero fermo, ma anche solido, robusto, fatto con buoni materiali e non in economia. Per fare questo bisogna trovare operai specializzati nel mestiere, e anche architetti che, con tutte le loro competenze, conoscano e che sappiano muovere il cantiere. La stabilità di un edificio è il risultato di una cooperazione civile. I muratori nel gergo dicono di fare i lavori a regola, fare un’architettura stabile vuol dire rispettare le leggi e i regolamenti.
La utilitas è la costruzione dell’ambiente organizzando gli spazi interni. In questo si esprime la capacità dell’architetto di pro-gettare, di “gettare avanti” lo sguardo, di pre-vedere come saranno utilizzati gli spazi al fine di rendere un ambiente funzionale, e il conseguente benessere di chi è fruitore.
Firmitas e utilitas sono due qualità dovute all’architettura. Il terzo elemento, la venustas, cambia nel tempo diventando stile, e su questo si sono espressi infiniti pensieri. Vitruvio usa questa parola con un significato preciso. Venustas deriva da Venus, la dea Venere, la dea della Bellezza e dell’Amore. Per i romani aveva un valore etico, infatti Cicerone nel de Officiis (I doveri, I, 36) affermava che la venustas era la versione femminile della dignitas maschile, e identificava la grazia come armonia e proporzione.
Così come per la persona, l’edificio per essere bello doveva essere proporzionato nella misura e nel decoro per dialogare con la città. L’architettura è bella se con la sua venustas esprime in modo chiaro la sua funzione.
Un esempio è il Pantheon. La sua struttura del tempio anticamente era nascosta nel tessuto cittadino e la sua forma non era convenzionale come un tempio greco, aveva un pianta rotonda e la struttura a tamburo. La rotonda da sola non dimostra di essere un tempio. Perciò, per non confondere i Romani, fu posizionato all’ingresso un timpano e un colonnato, un pronao che replicava la facciata di un tempio greco.
Firmitas, utilitas e venustas, sono l’identità di un edificio. Se ne manca anche uno solo, non è architettura:
- Tenendo utilitas e venustas l’edificio senza firmitas non sarebbe più stabile e crollerebbe; o sarebbe una struttura mobile come una tenda o un carro.
- Solo con firmitas e venustas si potrebbe ottenere una statua, stabile e bella ma senza utilitas perché, non avendo “spazi” interni da organizzare, non assolverebbe a nessuna necessità.
- Con la utilitas e la firmitas e senza venustas ogni edificio sarebbe uguale all’altro, privato della sua identità. Di conseguenza ogni città perderebbe la sua bellezza e i cittadini si troverebbero espropriati della grazia e della dignità.
Firmitas, utilitas e venustas sono qualità che ci si aspetta dall’architettura e anche dalla vita.
Articolo e Podcast di Michelangelo Mammoliti